In tema di fatture soggettivamente inesistenti, la condotta antieconomica del fornitore non necessariamente è prova della consapevolezza della frode da parte del contribuente: occorre infatti verificare se ed in che modo poteva conoscere simili informazioni. Lo afferma la Cassazione con la sentenza n. 25106 depositata il 10.11.2020.
La Cassazione ha ricordato che l’amministrazione ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta. Deve provare in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere con l’ordinaria diligenza che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale e che disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto. Il contribuente deve poi fornire prova contraria.
Le contestazioni relative a fatture soggettivamente inesistenti si fondano per lo più sulla circostanza che il fornitore non adempia ai propri obblighi fiscali ovvero sulla sua condotta antieconomica. Elementi impossibili da conoscere per il contribuente, tanto più che se anche chiedesse simili notizie al proprio fornitore, riceverebbe verosimilmente false notizie rassicuranti. Gli uffici emettono a volte accertamenti in via quasi automatizzata, trascurando l’impossibilità per i contribuenti di accedere a simili informazioni. Sarebbe forse sufficiente che i verificatori, prima di emettere il provvedimento, verifichino se, senza utilizzare i propri poteri di controllo ed i dati presenti nell’anagrafe tributaria, siano comunque in grado di scoprire la frode magari utilizzando i motori di ricerca.